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D'altra parte l'abbandono quasi completo della Zona da parte dell'uomo e delle sue attività sembra aver sortito, a lungo andare, effetti benefici tali da controbilanciare in qualche modo quelli devastanti delle radiazioni. Addirittura, negli oltre 20 anni dalla tragedia, la vegetazione spontanea è effettivamente cresciuta rigogliosa e, tutto sommato, "sana", al pari della fauna (ciononostante ci sono alcuni casi ben documentati di alterazioni genetiche provocate dalle radiazioni, quali l'albinismo nelle rondini, tanto per citare un singolo esempio fra i più osservati), con la proliferazione e/o il ritorno di lupi, cinghiali selvatici, caprioli, cervi, alci, castori e addirittura di linci e orsi bruni!
Oggi la Zona è quindi considerata da alcuni una sorta di "parco naturale involontario": per proteggere la flora e la fauna e vigilare su di esse sono state preposte unità speciali di guardie forestali ma, viceversa, sono state anche adottate precauzioni finalizzate a proteggere il resto del mondo dalla Zona e dalla minaccia rappresentata da fiumi e laghi per la diffusione di fanghi contaminati durante le piene primaverili (a tal fine è stato allestito un sistema di dighe di contenimento).

Oggi nella Foresta rossa si registrano a tratti tassi di radioattività pari a 3500 mR all'ora

Le radiazioni non sembrano tuttavia aver rappresentato, nè rappresentano oggigiorno, un problema significativo per numerosi gruppi di animali selvatici: parlo ad esempio, come già accennato poco sopra, di cinghiali, volpi, lupi e lepri che, abbandonate le regioni più settentrionali dell'Ucraina, sono "emigrati" verso sud spingendosi fino alla Zona di esclusione e alla Foresta rossa in particolare.

Qui hanno trovato un luogo ideale ove insediarsi, libero dall'influenza e dal controllo dell'uomo, pur essendo presenti livelli di uranio, plutonio  e di altre sostanze radioattive a tratti ancora elevati.

La Foresta rossa è infatti ormai povera di pesticidi, di fumi industriali e, soprattutto, di uomini. Per queste specie animali l'inquinamento radiaottivo residuo è meno pericoloso rispetto a quello "umano". Sembra che nell'area circostante al reattore n°4 basti guardarsi un po' intorno per scorgere cinghiali e lepri che riposano accanto ai resti delle vecchie fattorie abbandonate dalla popolazione locale! Questa fauna selvatica si spinge periodicamente anche attraverso le strade di Pripyat, indisturbata e tranquilla come se fosse "a casa propria". Purtroppo, le operazioni illecite dei bracconieri sono una realtà ineluttabile ma essa è rivolta prevalentemente a prede giovani, in genere al di sotto dei 3 anni di età, le cui pelli e carni ancora non hanno raggiunto livelli di radioattività preoccupanti. Se un animale selvatico riesce a superare i 3 anni di vita è quindi verosimile che il suo interesse "economico" si azzeri e che possa continuare a vivere "tranquillamente" nella Zona. La fauna locale è stata a lungo e costantemente monitorata dal radiobiologo Serghei Gashkak, da sempre studioso della riserva naturale di Chernobyl.
Secondo i suoi studi, gli animali che vivono già da tempo a Chernobyl si sarebbero ormai adattati alle condizioni ambientali del luogo, mentre quelli via via provenienti da altre regioni soffrirebbero enormemente appena entrano nell'area contaminata attorno al reattore n°4. D'altra parte Gashkak ha registrato molte mutazioni nel DNA degli animali che vivono da tempo nei pressi del reattore, cosa che invece non è successa ai "neo arrivati", i quali non mostrano significativi cambiamenti fisiologici o riproduttivi. Il fenomeno è probabilmente dovuto al minor tempo di contatto della fauna pioniera con i suoli e l'aria radioattiva del luogo. Altri scienziati locali hanno integrato gli studi di Gashkak, rafforzando prima di tutto la teoria secondo cui le specie sopravvissute hanno sviluppato nel tempo profonde mutazioni nel loro DNA; inoltre in molti hanno osservato che questi organismi altamente mutati non sono mai stati realmente studiati, perchè morti troppo precocemente per "cause naturali" (un termine forse improprio...).

In assenza di dati analitici oggettivi è quindi difficile assumere una posizione definita.

Rimane il fatto che nella regione contaminata vi sia una concentrazione di plutonio pari a circa 100.000 ci/ettaro su una superficie di 900 km². Altro aspetto di cui tener conto è la natura degli "animali" studiati. In particolare, gli insetti - soprattutto cavallette, farfalle, bombi, libellule e ragni - hanno mostrato un rapporto inversamente proporzionale fra esposizione a radiazioni e incremento della propria popolazione, un dato si interesse scientifico ed epidemiologico ancora oggetto di studi.

Vale la pena menzionare uno degli studi più sorprendenti e relativamente recenti, condotto durante l'estate 2008 da A. P. Moeller e T. A. Mousseau,  pubblicato su "Biology Letters" della Royal Society inglese, ma ne esistono anche altri degni di nota. Da un lato, studi di questo tipo mostrano come lo stato della fauna nella Zona sia molto eterogeneo a seconda delle caratteristiche degli animali in oggetto; dall'altro, per lo stretto rapporto che lega insetti e flora, è evidente come l'ecosistema sia ancora lontano da un assetto di equilibrio naturale. Secondo numerose previsioni, questa concentrazione impedirà il pieno utilizzo del suolo per altri 200.000 anni circa. Tutto questo, alla fin fine, rende ancora più sorprendente il fenomeno naturale che si è verificato e sta proseguendo nella "Foresta rossa" e nei suoi dintorni: il ripopolamento della fauna selvatica ha quasi del miracoloso! L'adattamento della flora, invece, ha recentemente trovato spiegazioni scientifiche:

Ventitrè anni dopo l'incidente alla centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina - il peggiore nella storia - gli scienziati elaborano una relazione sul mistero dell'adattamento e della sopravvivenza delle piante nei terreni radioattivi vicino al reattore esploso. La loro ricerca è la prima a provare come la produzione di proteine chiave nelle piante cambiano in risposta ai cambiamenti radioattivi dell'ambiente. Il rilascio del rapporto è previsto per il 5 giugno nell'"ACS Journal of Proteome Research"Martin Hajduch e colleghi (American Chemical Society) notano nel nuovo studio che le piante che crescono nella zona di Chernobyl, dopo il disastro del 26 aprile 1986, riescono a crescere ed adattarsi in qualche modo all'ambiente radioattivo. Ma fino ad ora nessuno sapeva che le modificazioni biochimiche nelle piante rappresentassero l'elemento fondamentale per la funzione di adattamento. I ricercatori hanno scoperto che i semi di soia esposti alle radiazioni producono diversi tipi tipi di proteine dai semi di piante non sottoposte ad esposizione. Le proteine proteggono i semi da un ambiente radio-contaminato. E' interessante notare come le piante che crescono in terreni contaminati producano un terzo in più di proteina chiamata betaina aldeide deidrogenasi, la stessa proteina del sangue che protegge il corpo umano dai danni delle radiazioni.

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Fonte: PhysOrg.com (tradotto da Progetto Humus, 14 maggio 2009)

Questa notizia si ricollega a quanto riportato da Apcom lo stesso mese:

La foresta rossa

Quando si parla del disastro ecologico che ha investito la Zona a seguito dell'incidente presso la centrale nucleare oppure della natura all'interno di essa ci si riferisce implicitamente, quasi sempre, alla Foresta rossa, un'ampia area boschiva situata a sud-ovest di Pripyat e a ovest della ChNPP, investita con rapidità e violenza dalle radiazioni e dai materiali radioattivi provenienti dal reattore n° 4.

Sembra che soltanto i pini morirono precocemente mentre le betulle e i pioppi sopravvissero (su altri tipi di alberi non sono riuscito a reperire dettagli documentati).

Germogli di soia, rigogliosi, nei terreni contaminati che si estendono vicino Chernobyl. Peccato però che non si possano mangiare! Annotano le le pagine scientifiche della rivista Wired. Eppure la scoperta di piantine di soia nei pressi della centrale nucleare saltata in aria nel 1986 è giudicata molto interessante dagli scienziati. Se riusciranno a comprendere come fanno a sopravvivere le piante in ambienti di per sè ostili, si potranno realizzare geneticamente piante talmente forti da resistere alla siccità o da crescere su terre poco fertili. I primissimi passi sono già stati fatti, da un team di scienziati slovacchi. "E' molto incoraggiante sapere che esistano piante in grado di adattarsi nell'area in cui è avvenuto l'incidente nucleare più grave del mondo", ha commentato Martin Hajduch, esperto di biotecnologia applicata alle piante, presso la Slovak Academy of Sciences e coautore dello studio, sul Journal of Proteome Research. Il team di Hajduch ha costruito e raccolto semi da un giardino vicino al villaggio di Chistogalovka, a cinque chilometri da quel che resta della centrale nucleare. Gli scienziati hanno analizzato quei semi con ogni sorta di moderna tecnica proteomica, superando precedenti studi condotti in materia. Dopo anni di ricerche effettuati sugli effetti dannosi delle radiazioni sulle piante cresciute in quell'area, questa è la prima volta che qualcuno scatta un'istantanea di tutto l'universo vegetale che cresce a Chernobyl. Gli scienziati slovacchi hanno iniziato con il congelare ciascun seme con liquido nitrogeno, schiacciandolo fino a estrarre un mix di proteine. In seguito, hanno raccolto quelle molecole in un blocco di gel elettrizzato e hanno identificato ciascuna di esse con uno spettrometro di massa. Hanno poi sottoposto allo stesso procedimento piante che crescevano a 100 chilometri dall'area della centrale. Le piante contaminate si modificavano per difendere se stesse, regolando i livelli di decine di proteine in modo da proteggersi da malattie, metalli pesanti e sale. La differenza principale tra le piante nate nell'area dei rifiuti radioattivi e quelle più lontane è stata sorprendente: i livelli di centinaia di proteine, conosciute per la loro abilità di trasportare altre proteine, erano bassissimi. Le piante dunque erano in salute, ma non commestibili.

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Fonte: Apcom.net (maggio 2009)

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