Pripyat, la città ucraina vicina al teatro del disastro del 1986, è diventata un’attrazione turistica che quest’anno sarà visitata da 65mila visitatori. E’ una landa desolata che racconta una catastrofe, le utopie dell’Unione Sovietica e le contraddizioni di oggi.
Quella primavera del 1986, gli allora bimbi delle elementari italiane se lo ricordano bene: gli ammonimenti materni ,“Non scavare in giardino”; i bizzarri diktat alimentari “Non mangiare la lattuga” e infine un timor panico per la pioggia che spingeva la maestre a vietare la ricreazione all’aperto. Un’educazione atomica in tempo di pace per quella generazione cui erano stati risparmiati gli orrori di Hiroshima e Nagasaki. Il colpevole? Una gigantesca fuga di veleni radioattivi per l’esplosione in una centrale nucleare, peraltro lontanissima, prima della caduta del muro e a disgelo appena cominciato: Chernobyl, Unione Sovietica. E nell’immaginario di settenni, ci si figurava allora quell’universo come denso di scenari apocalittici alla Blade Runner, fumi e rovine: se ci avevano spaventato così tanto nei cortili delle nostre periferie, chissà cosa doveva essere successo laggiù, nel cuore del disastro.
Quello che il settenne di allora non poteva assolutamente immaginare è che un giorno a Chernobyl ci si sarebbe invece potuti andare in gita, in un luogo non più così inaccessibile. E in un altro paese, l’Ucraina, nato dalla dissoluzione di quella che fu l’Unione Sovietica. Per scoprire che quel che rimane, a 32 anni dall’esplosione, è sì una landa desolata. Ma non tanto rassomigliante a un futuribile racconto di Asimov, quanto piuttosto a una postmoderna fiaba dei fratelli Grimm: già, quel che rimane di Pripyat la città satellite da 50.000 abitanti costruita apposta a 3 km da Chernobyl , il paesino ben più piccolo dove sorgeva la centrale, se lo sono mangiato gli alberi, come durante il letargo della Bella Addormentata nel Bosco.
Dormono infatti i palazzi da dieci piani, dorme la casa del popolo, dormono gli alberghi e i ristoranti, dorme la piscina, dorme il supermercato, dorme l’ormai iconografica ruota panoramica, tutta arrugginita come dormono gli autoscontri: perché Prypiat venne abbandonata, con colpevole ritardo, tre giorni dopo lo scoppio, con un esodo di massa organizzato in fretta e furia da Mosca. E rimase cristallizzata per sempre in un fermo immagine. Prima negletta e dimenticata e oggi trasformata in una sorta di Pompei sovietica, meta paradossalmente turistica. Anche se nel disinteresse generale di Kiev che quel passato vuole assolutamente dimenticare, travolta dalla guerra congelata eppure ancora in corso con gli ex amici russi: ma, nonostante tutto, sono ben 65.000 i visitatori previsti per il 2018 con un balzo del 50% rispetto solo al 2017.
E ci si va attraverso l’infaticabile lavoro di piccole associazioni: per una cifra non proprio modica, intorno ai 150 euro, si può provare l’ebbrezza di vedere come si viveva in Urss nel 1986, superando due checkpoint e oltrepassando la valanga di scartoffie burocratiche necessarie all’uopo, dove si vede che l’Ucraina non è molto cambiata rispetto all’Unione Sovietica. E gli altri abitanti di questa immensa Ghost Town, oltre ai lupi e agli orsi che si aggirano indisturbati tra i casermoni, sono le forze speciali dell’esercito ucraino. Come si evince dai fori dei proiettili nelle vetrine di quel che era il bar modello della cittadina. Perché non sembra vero, ai cecchini e ai tiratori scelti, poter disporre di un gigantesco playground, dove ricreare le perfette condizioni per la guerriglia urbana.
Ma se, oltre ai militari, Pripyat affascina questa nuova ondata di turisti è perché la bella addormentata non era un posto qualsiasi: nei sogni (e nei depliant) dell’ortodossia comunista veniva idolatrata come Atomgrad, la città del futuro fondata nel 1970, dove ogni sovietico avrebbe desiderato vivere, come recita ancora oggi la gigantesca e cadente scritta in cirillico sopra uno dei palazzi in sonno. “L’energia nucleare genera soldati per la pace”. Per questo i supermercati di Prypiat dovevano essere pieni, altro che le file chilometriche da cartolina triste a Mosca o Leningrado: già, vagando tra i carrelli abbandonati e gli scaffali rovesciati, ci si riesce facilmente a immaginare la felicità dei clienti di trent’anni prima per questo raro paradiso consumistico. Una felicità garantita dalla sicumera dei vertici del Partito che non si preoccuparono dunque di costruire Pripyat a soli tre chilometri del reattore.
Ed eccolo il reattore: oggi è sepolto in un sarcofago enorme e per la sua dismissione sono impiegate ben 4500 persone, di fatto i nuovi residenti, pur se temporanei, del vicino e più piccolo abitato di Chernobyl. Perché una centrale nucleare vive anche quando è morta, a testimonianza dei costi sociali che comporta questa energia quando non funziona. E poi ci sono i costi umani. Perché i morti per davvero, dopo l’esplosione al reattore numero quattro, furono una trentina, coloro che lavoravano a diretto contatto con l’impianto: ma, secondo gli studi di diversi organismi indipendenti, i decessi legati alla tragedia di Chernobyl sono almeno 800.000, a causa dei tumori e delle malattie scatenate dai veleni radioattivi. Peraltro avvenuti per il 70% in Bielorussia, colpita ben più dell’Ucraina: fu infatti il vento, andando verso nord, a decidere dove seminare la morte.
Non c’è invece ragione di aver timore delle condizioni del presente. Le possibilità di tornare “contaminati” dalla gita in questa Pompei orientale sono pressoché nulle: durante il girovagare in tutta l’area , grande peraltro, nel complesso, la bellezza di 2600 km, il livello delle radiazioni percepito è inferiore a quello di un viaggio intercontinentale in aereo, col contatore geiger che suona molto di rado nel rilevare quantità più alte del normale. Il pericolo semmai è sottoterra dove i materiali velenosi si sono insinuati in profondità: per questo nella Chernobyl diventata una foresta oggi è vietato scavare.
E in mezzo alla boscaglia si apre l’altro sito fondamentale in questo percorso della memoria: Chernobyl Due, così chiamata senza molta fantasia, era un luogo ignoto sulle cartine geografiche se non all’intelligence dell’Armata Rossa e al Kgb. Lì sorgevano delle strutture radar enormi, alte 150 metri, con cui l’Urss voleva captare i segreti del nemico americano ai tempi della Guerra Fredda. Un’opera costata la bellezza di otto miliardi di dollari e in pratica mai utilizzata: due giorni dopo l’esplosione venne abbandonata anch’essa in tutta fretta e clandestinamente. Ecco, qui, le atmosfere alla Ridley Scott sono più vicine, con le carcasse dei computer nei lunghi corridoi bui e le gigantesche torri d’acciaio dimenticate, attorniate da cartelli sinistri che indicano il pericolo di radiazioni tutt’intorno.
La visita è terminata e, mentre ci si allontana, cresce la sensazione di aver attraversato un pezzo della nostra storia recente, non solo impregnata di catastrofe, ma anche di utopie mancate e sogni irrealizzati. Come sembra ricordarti uno degli ultimi Lenin rimasti nell’Ucraina che oggi si affanna a cancellare il suo passato, mentre, dalla piazza desolata di Chernobyl, osserva corrucciato e perplesso il turista che se ne va.
Fonte: Corriere della Sera, 3 maggio 2018
Il fascino di Pripyat è qualcosa di indescrivibile, per gli amanti dei viaggi isoliti